Silvia Argiolas

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Silvia Argiolas

SILVIA ARGIOLAS nasce a Cagliari nel 1977, vive e lavora a Milano.

La sua ricerca nasce da una trasformazione introspettiva di ciò che accade nella propria esistenza, fatti, odori, incontri. Lavorando con il medium della pittura, attraverso un intervento diretto su tela, gioca con un forte simbolismo e una espressività dal sapore arcaico, accompagnati ad una ricerca dalle tematiche sociologiche ed un interesse verso le teorie della moderna psicologia Lacaniana.

Tra le sue mostre personali ricordiamo: nel 2019 Tragödie a Casa Testori, Novate Milanese (MI), Ti amo dal profondo del mio odio presso la Galleria Richter Fine Art a Roma; Als ich begriff, dass sterblich bin alla Galerie Rompone a Köln, Germany; nel 2015 Last Moments alla Robert Kananaj gallery, Toronto; nel 2014 A Day In The Life alla L.E.M e Walk on the wild side (Conversion Of Evil) presso la Galleria Antonio Colombo, Milano; in 2012 You are not really so bad alla Galleria D406, Modena e nel 2011 The Season of the Witch alla Galleria Antonio Colombo, Milano.

Tra le sue mostre collettive possiamo citarne alcune delle più recenti: nel 2020 PHOENIX – the resurrection show alla Galerie Rompone a Köln, Germany; nel 2015 PanoRama a Torino e La fomosa invasione degli artisti a Milano presso la Galleria Antonio Colombo, Milano; nel 2014 Selvatico tre una testa che guarda al Museo Civico delle Cappuccine a Bagnocavallo (RA) e P2P #02 – Deep presso la galleria Circoloquadro, Milano.

Le sue opere sono state esposte in diverse occasioni tra cui molte fiere di arte contemporanea, una tra tutte Artissima nel 2017.

ALL FLESH IS GRASS

ALL FLESH IS GRASS di
Silvia Argiolas
A cura di Domenico
Russo
Silvia Argiolas si getta a
capo fitto tra labbra carnose, in mezzo a pelli brillanti d’unguenti. Con tuffi
eleganti e bendati raggiunge bocche acide e larghe, tra sorrisi consumati da
migliaia di rapporti mai esistiti o troppo reiterati. Prende tutto da ciò che
vive, vede, sente e mette in luce l’inutilità di alcune pose, per far vedere,
direi proprio percepire, la mancanza profonda di cui è pervaso ciò che facciamo.
A mascherate e spesso inebetite prostitute, conferisce il compito d’iniziare i
rituali del nostro tempo per consegnare, a chi volesse, l’onere della verità.
Le figure delle sue opere dispongono di oggetti di bellezza, strumenti del
potere per la costruzione del piacere, i kit per la cura spericolata del corpo
e la sua promozione al mondo intero. L’artista manipola le loro finzioni
partendo da una tensione vertiginosa, dilatata come petrolio nel mare sotto i
nostri piedi e crea sensazioni d’incertezza e profondità, accuratamente celate
dalla sensualità ammiccante, onirica e spiritata delle discinte signorine.

Pensiamoci, ciò che di più finto possiamo accaparrare, si rivela utile per
fare di noi stessi la migliore menzogna che abbiamo sempre desiderato d’essere.
Le parole esprimono finzione; gli indumenti che indossiamo; gli oggetti
comprati, usati buttati. Nel minuscolo sacro mausoleo del nostro corpo, il tempio
di carne, la promessa di terra, la speranza del cielo, confluisce ogni genere
di roba e decorazione, cianfrusaglie impacchettate e stivate all’inverosimile fino
al punto d’implodere in intrepide varianti.

Nel nostro regno formato cranio, diceva David F. Wallace, ci siamo noi
e la nostra libera solitudine, nessun altro. Le figure di All Flesh is Grass sono
sovrane assolute della nostra coscienza, le regine delle nostre laide pulsioni,
erette come colonne tortili senza soffitto né cielo, nel vuoto
sovradimensionato dalle carcasse reduci della corsa all’edonismo. Nel palazzo
onanistico dell’auto-impero, l’unica legge in vigore impone l’etica del
godimento. Suscitare il desiderio altrui, a volte da dietro la vetrina monodose
del personal computer, sembra essere lo scopo principale. Con profonda
coscienza, Argiolas, predispone la scena al rito orgiastico, pone il
letto/altare per la purificazione e raccoglie gli esemplari più rappresentativi
affinché possa sapere prima di tutti, quanto essa stessa sia coinvolta, cioè fin
dove le sue gambe, il suo corpo sono compromessi. È così epidermica che senza
pensarci prende le distanze da espressioni di facile impatto. Le inutili forme,
insomma, da cui si scosta per sentimento, mentre distese acriliche e smaltate
d’erotismo sudato alla youporn smuovono le recenti mutazioni sociali in una
cruda rappresentazione dei nostri segreti.

Ecco, un mondo di
signorine vogliose con cuoricini sorridenti sulle chiappe sculettanti. Ambigue,
a tratti ieratiche, pervase da un’oscura presenza esterna, invitano tutti a non
tirarsi in dietro dall’orgia globale. Tutti nella mischia, tra emoticons sparsi
sugli orifizi, stelline sui capezzoli, mozziconi di sigarette, frustini e
corpetti, mentre le manifestazioni quotidiane del vuoto, più blande e più
kitchs, tintinnando chiedono se non ci sia veramente più niente da guardare
oltre la superficie. Per questo le nature morte sono di lattine di birra, di
mele depresse, fazzoletti usati, vasi
cinesi, proiezioni di un’idea di famiglia, dove ogni elemento corrisponde a un
grado di parentela e a un grado di degrado! Carne come l’erba destinata a
seccare, distante anni luce dalle aspirazioni ultraterrene e le divine
ascendenze che, invece, l’origine biblica del titolo della mostra custodisce in
una flebile, lontanissima, fiammella.

ALL FLESH IS GRASS by Silvia Argiolas
curated by Domenico Russo
Silvia Argiolas immerges herself in soft tender
lips, caught in the middle of their shiny ointed skin. Dipping graciously and
blindfolded, she touches mouths which are wide-open and sour, with a smirk carved
by countless occasional or even imagined bodily contacts. She takes everything
she can from what has been lived, seen or felt, highlighting the futility of
certain poses in order to show – or we might even say perceive – the original
lack that lies beneath everything we do. She assigns to masked and frequently
inebriated prostitutes the duty of initiating the rituals of our time so that
the burden of truth can be delivered to those who are willing to accept it. The
figures of her paintings carry beauty items which are true instruments of power
for the construction of pleasure, devices for a careless treatment of the body
and its disposal for the world to see. The artist’s manipulation of these
fictions stems from a spiraling tension that expands from beneath our feet like
an oil leak, creating a sense of uncertainty and depth concealed by the
devilish, dreamlike and alluring sensuality of the scantily dressed ladies.
If you think attentively, of everything we lay
our hands on, what is the most fake comes in handy solely in making ourselves
the biggest lie we always strived to be. Words express fictions in the same way
as the clothes we wear and the objects we buy, use and throw away. In that
miniature sacred shrine which is our body, the temple of flesh, the promised
land, the heavenly hope, all sorts of worthless rubbish and imbellishments flood
in, wrapped and compressed garbage that is crammed to the point of bursting in
a multitude of daring alternatives.
Quoting David Foster Wallace, in our
skull-sized kingdoms there is only us and the freedom of our isolation, nothing
else. The characters of All Flesh is
Grass are the sovereigns of our consciousness, the queens of our obscene
desires, which stand like Solomonic columns with no ceiling or sky above, in an
outer-dimensional void filled by the carcasses of those who managed to survive
this rat-race of pleasures. In the onanistic palace of our self-proclaimed
empire, the only effective law is the one that imposes the ethics of enjoyment.
The only purpose is to titillate the other’s desire, sometimes behind the
disposable screen of a personal computer. With deep awareness Argiolas prepares
the scene for erotic rites by placing a bed-altar and by gathering the most significant
models in order to realize before others how intensely she is involved, or, it
is the same, how much her body and her legs are compromised. Her poetry is so
felt that without thinking she distances herself from expressions that are too
easily impressive. For affection she moves away from useless forms, while
acrylic surfaces polished by a sticky sexuality one can find in youporn amateur
videos shake the recent social transformations in a grit portrayal of our darkest
secrets.
There it is: a world of voluptuous dames with
smiling hearts tattooed on their shaking posterior. Deceptive and sometimes
even solemn, these women are continuously followed by an external dark presence
and inviting everyone not to turn away from the global orgy. Everyone is thrown
in this mix of emoticons covering orifices, star-shaped nippies, whips and
bustiers, while the ordinary display of mundane and blatant emptiness timidly
asks if really there is nothing more to see underneath the surface. For this
reason still lifes are made of beer cans, cigarette butts, used tissues,
chinese vases, projections of an ideal family where each element corresponds to
a degree of kinship and at the same time to a degree of moral degradation. Here
flesh is like drying grass, light years away from heavenly aspirations and from
the divine root that the biblical origin of the title of the exhibition keeps
away in a distant and feeble flame.

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